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martedì 3 novembre 2009

Carissimo Fratello Pinocchio


Da: Carlo Collodi - "PINOCCHIO"
Introduzione di Fernando Tempesti.

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Da aggiungere non abbiamo che qualche nuova informazione o domanda. La prima riguarda la militanza del Lorenzini, dopo i suoi inizi negli ambienti mazziniani, nelle fila della massoneria. Che il figlio del cuoco cortonese nel corso della sua via avesse murato liberamente, per dirla col nostro grande Giorgio Pasquali, lo si era già pensato. Nè pochi erano i segni, o gli accenni, che incoraggiavano tale ipotesi, anche se positivamente il suo nome non compare in nessuna di quelle raccolte storiche, nelle quali si vanno a cercare i nomi dei massoni illustri, distintisi nelle scienze o nelle discipline umanistiche. L'ipotesi, tuttavia, aveva un tale fascino in sé, che due specialisti, Nicola Coco e Alfredo Zambrano, nel 1984, pur rispettandola come tale, fondavano su di essa un lungo lavoro, che si concretava in un ampio e denso volume dal titolo non equivoco: Pinocchio e i simboli della 'Grande Opra" (Roma Atanor). La prova, che avrebbe voltato l'ipotesi in certezza, come spesso le prove e altri piccoli e grandi tesori, era più a portata di mano di quanto, a tutti quanti che cercavamo, era dato immaginare. Dormiva da più di un secolo nella chiusa di una lettera, inviata dal Nostro i l 4 marzo 1884 a un massone notorio, Piero Barbèra, figlio del più risorgimentale Gaspero.
Lettera che si poteva leggere anche a stampa dal 1980, perché pubblicata da Maria Jole Minicucci nel volume degli Atti, titolo Pinocchio Oggi, pp. 230-231, di un convegno che aveva avuto luogo a Pescia fra il settembre e l'ottobre del 1978. In questa lettera il Lorenzini conclude (il corsivo è nostro): "In ogni modo mi creda il fratello Collodi".
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E ci si ricorda di Emilio Servadio, psicanalista collodista e massone: chissà come avrebbe esultato al sapere per certo che il "suo" Collodi si firmava Fratello.
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Detto fatto, prese subito l’ascia arrotata per cominciare a levargli la scorza e a digrossarlo.


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In quel punto fu bussato alla porta. – Passate pure, – disse il falegname, senza aver la forza di rizzarsi in piedi.
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Vi prometto, babbo, che imparerò un’arte.


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Mi pare un burattino fatto di un legname molto asciutto, e sono sicuro che, a buttarlo sul fuoco, mi darà una bellissima fiammata all’arrosto.
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– Ho capito, – disse allora uno di loro, – bisogna impiccarlo! Impicchiamolo! – Impicchiamolo, – ripeté l’altro.

Detto fatto, gli legarono le mani dietro le spalle e passatogli un nodo scorsoio intorno alla gola, lo attaccarono penzoloni al ramo di una grossa pianta detta la Quercia grande. Poi si posero là, seduti sull’erba, aspettando che il burattino facesse l’ultimo sgambetto: ma il burattino, dopo tre ore, aveva sempre gli occhi aperti, la bocca chiusa e sgambettava più che mai. Annoiati finalmente di aspettare, si voltarono a Pinocchio e gli dissero sghignazzando:– Addio a domani. Quando domani torneremo qui, si spera che ci farai la garbatezza di farti trovare bell’e morto e con la bocca spalancata.E se ne andarono. Intanto s’era levato un vento impetuoso di tramontana,che soffiando e mugghiando con rabbia, sbatacchiava in qua e in là il povero impiccato. In quel mentre che il povero Pinocchio impiccato dagli assassini a un ramo della Quercia grande, pareva oramai più morto che vivo, la bella Bambina dai capelli turchini si affacciò daccapo alla finestra, e impietositasi alla vista di quell’infelice che, sospeso per il collo, ballava il trescone alle ventate di tramontana, batté per tre volte le mani insieme, e fece tre piccoli colpi.

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Pinocchio prese di mala voglia il bicchiere in mano e vi ficcò dentro la punta del naso: poi se l’accostò alla bocca:
poi tornò a ficcarci la punta del naso: finalmente disse:
– È troppo amara! troppo amara! Io non la posso bere.
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A questo punto, la porta della camera si spalancò ed entrarono dentro quattro conigli neri come l’inchiostro, che portavano sulle spalle una piccola bara da morto.
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– Quanto siete buona, Fata mia, – disse il burattino, asciugandosi gli occhi, – e quanto bene vi voglio! – Ti voglio bene anch’io, – rispose la Fata, – e se tu vuoi rimanere con me, tu sarai il mio fratellino e io la tua
buona sorellina.


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QUI GIACE LA BAMBINA DAI CAPELLI TURCHINI
MORTA DI DOLORE PER ESSERE STATA ABBANDONATA
DAL SUO FRATELLINO PINOCCHIO
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– L’ho caro dimolto, perché così, invece di sorellina, vi chiamerò la mia mamma. Gli è tanto tempo che mi struggo di avere una mamma come tutti gli altri ragazzi!... Ma come avete fatto a crescere così presto? – È un segreto. – Insegnatemelo: vorrei crescere un poco anch’io. Non lo vedete? Sono sempre rimasto alto come un soldo di cacio. – Ma tu non puoi crescere, – replicò la Fata. – Perché? – Perché i burattini non crescono mai. Nascono burattini, vivono burattini e muoiono burattini. – Oh! sono stufo di far sempre il burattino! – gridò Pinocchio, dandosi uno scappellotto. – Sarebbe ora che diventassi anch’io un uomo come tutti gli altri. – E lo diventerai, se saprai meritartelo.
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Pinocchio, cascando giù in corpo al Pesce-cane, batté un colpo così screanzato, da restarne sbalordito per un quarto d’ora.Quando ritornò in sé da quello sbigottimento, non sapeva raccapezzarsi, nemmeno lui, in che mondo si fosse. Intorno a sé c’era da ogni parte un gran buio: ma un buio così nero e profondo, che gli pareva di essere entrato col capo in un calamaio pieno d’inchiostro.
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E più andava avanti, e più il chiarore si faceva rilucente e distinto: finché, cammina cammina, alla fine arrivò: e quando fu arrivato... che cosa trovò? Ve lo do a indovinare in mille: trovò una piccola tavola apparecchiata, con sopra una candela accesa infilata in una bottiglia di cristallo verde, e seduto a tavola un vecchiettino tutto bianco.
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Ora immaginatevi voi quale fu la sua maraviglia quando, svegliandosi, si accorse che non era più un burattino di legno: ma che era diventato, invece, un ragazzo come tutti gli altri. Dette un’occhiata all’intorno e invece delle solite pareti di paglia della capanna, vide una bella camerina ammobiliata e agghindata con una semplicità quasi elegante. Saltando giù dal letto, trovò preparato un bel vestiario nuovo, un berretto nuovo e un paio di stivaletti di pelle, che gli tornavano una vera pittura. Appena si fu vestito gli venne fatto naturalmente di mettere la mani nelle tasche e tirò fuori un piccolo portamonete d’avorio, sul quale erano scritte queste parole:
«La Fata dai capelli turchini restituisce al suo caro Pinocchio i quaranta soldi e lo ringrazia tanto del suo buon cuore». Aperto il portamonete, invece dei quaranta soldi di rame,vi luccicavano quaranta zecchini d’oro, tutti nuovi di zecca.
Dopo andò a guardarsi allo specchio, e gli parve d’essere un altro. Non vide più riflessa la solita immagine della marionetta di legno, ma vide l’immagine vispa e intelligente di un bel fanciullo coi capelli castagni, cogli occhi celesti e con un’aria allegra e festosa come una pasqua di rose. In mezzo a tutte queste meraviglie, che si succedevano le une alle altre, Pinocchio non sapeva più nemmeno lui se era desto davvero o se sognava sempre a occhi aperti. – E il mio babbo dov’è? – gridò tutt’a un tratto: ed entrato nella stanza accanto trovò il vecchio Geppetto sano, arzillo e di buonumore, come una volta, il quale, avendo ripreso subito la sua professione d’intagliatore in legno, stava appunto disegnando una bellissima cornice ricca di fogliami, di fiori e di testine di diversi animali. – Levatemi una curiosità, babbino: ma come si spiega tutto questo cambiamento improvviso? – gli domandò Pinocchio saltandogli al collo e coprendolo di baci. – Questo improvviso cambiamento in casa nostra è tutto merito tuo, – disse Geppetto. – Perché merito mio?... – Perché quando i ragazzi, di cattivi diventano buoni, hanno la virtù di far prendere un aspetto nuovo e sorridenteanche all’interno delle loro famiglie. – E il vecchio Pinocchio di legno dove si sarà nascosto?– Eccolo là, – rispose Geppetto; e gli accennò un grosso burattino appoggiato a una seggiola, col capo girato su una parte, con le braccia ciondoloni e con le gambe incrocicchiate e ripiegate a mezzo, da parere un miracolo se stava ritto. Pinocchio si voltò a guardarlo; e dopo che l’ebbe guardato un poco, disse dentro di sé con grandissima compiacenza:
– Com’ero buffo, quand’ero un burattino!... e come ora son contento di essere diventato un ragazzino perbene!...